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il sapere condiviso è possibile
EPICURO
Lettera sulla felicità
(A Meneceo)
Mai si è troppo giovani o troppo vecchi per la
conoscenza della felicità. A qualsiasi età è bello occuparsi del benessere dell'animo nostro.
Chi sostiene che non è ancora giunto il momento di dedicarsi alla conoscenza di essa, o che ormai
è troppo tardi, è come se andasse dicendo che non
è ancora il momento di essere felice, o che ormai è
passata l'età.
Ecco che da giovani come da vecchi è giusto
che noi ci dedichiamo a conoscere la felicità. Per
sentirci sempre giovani quando saremo avanti con
gli anni in virtù del grato ricordo della felicità avuta in passato, e da giovani, irrobustiti in essa, per
prepararci a non temere l'avvenire.
Cerchiamo di conoscere allora le cose che fanno la felicità, perché quando essa c'è tutto abbiamo, altrimenti tutto facciamo per possederla.
Pratica e medita le cose che ti ho sempre raccomandato: sono fondamentali per una vita felice.
Prima di tutto considera l'essenza del divino materia eterna e felice, come rettamente suggerisce la
nozione di divinità che ci è innata.
Non attribuire alla divinità niente che sia diverso dal sempre vivente o contrario a tutto ciò che è
felice, vedi sempre in essa lo stato eterno congiunto alla felicità.
Gli dei esistono, è evidente a tutti, ma non sono
come crede la gente comune, la quale è portata a
tradire sempre la nozione innata che ne ha.
Perciò
non è irreligioso chi rifiuta la religione popolare,
ma colui che i giudizi del popolo attribuisce alla divinità.
Tali giudizi, che non ascoltano le nozioni ancestrali, innate, sono opinioni false.
A seconda di
come si pensa che gli dei siano, possono venire da
loro le più grandi sofferenze come i beni più splendidi.
Ma noi sappiamo che essi sono perfettamente
felici, riconoscono i loro simili, e chi non è tale lo
considerano estraneo.
Poi abituati a pensare che la morte non costituisce nulla per noi, dal momento che il godere e il
soffrire sono entrambi nel sentire, e la morte altro
non è che la sua assenza.
L'esatta coscienza che la morte non significa
nulla per noi rende godibile la mortalità della vita,
senza l'inganno del tempo infinito che è indotto dal
desiderio dell'immortalità.
Non esiste nulla di terribile nella vita per chi
davvero sappia che nulla c'è da temere nel non vivere più.
Perciò è sciocco chi sostiene di aver paura del-
la morte, non tanto perché il suo arrivo lo farà soffrire, ma in quanto l'affligge la sua continua attesa.
Ciò che una volta presente non ci turba, stoltamente atteso ci fa impazzire.
La morte, il più atroce dunque di tutti i mali,
non esiste per noi.
Quando noi viviamo la morte
non c'è, quando c'è lei non ci siamo noi.
Non è nulla né per i vivi né per i morti. Per i vivi non c'è, i
morti non sono più.
Invece la gente ora fugge la morte come il peggior male, ora la invoca come requie ai mali che vive.
Il vero saggio, come non gli dispiace vivere,
così non teme di non vivere più.
La vita per lui non è un male, né è un male il
non vivere.
Ma come dei cibi sceglie i migliori, non
la quantità, così non il tempo più lungo si gode, ma
il più dolce.
Chi ammonisce poi il giovane a vivere bene e il
vecchio a ben morire è stolto non solo per la dolcezza che c'è sempre nella vita, anche da vecchi,
ma perché una sola è la meditazione di una vita
bella e di una bella morte.
Ancora peggio chi va dicendo: bello non essere
mal nato, ma, nato, al più presto varcare la soglia
della morte.
Se è così convinto perché non se ne va
da questo mondo?
Nessuno glielo vieta se è veramente il suo desiderio. Invece se lo dice così per
dire fa meglio a cambiare argomento.
Ricordiamoci poi che il futuro non è del tutto
nostro, ma neanche del tutto non nostro.
Solo così
possiamo non aspettarci che assolutamente s'avveri, né allo stesso modo disperare del contrario.
Così pure teniamo presente che per quanto riguarda i desideri, solo alcuni sono naturali, altri
sono inutili, e fra i naturali solo alcuni quelli proprio necessari, altri naturali soltanto.
Ma fra i necessari certi sono fondamentali per
la felicità, altri per il benessere fisico, altri per la
stessa vita.
Una ferma conoscenza dei desideri fa ricondur-
re ogni scelta o rifiuto al benessere del corpo e alla
perfetta serenità dell'animo, perché questo è il
compito della vita felice, a questo noi indirizziamo
ogni nostra azione, al fine di allontanarci dalla sofferenza e dall'ansia.
Una volta raggiunto questo stato ogni bufera
interna cessa, perché il nostro organismo vitale
non è più bisognoso di alcuna cosa, altro non deve
cercare per il bene dell'animo e del corpo.
Infatti proviamo bisogno del piacere quando
soffriamo per la mancanza di esso. Quando invece
non soffriamo non ne abbiamo bisogno.
Per questo noi riteniamo il piacere principio e
fine della vita felice, perché lo abbiamo riconosciuto bene primo e a noi congenito.
Ad esso ci ispiriamo per ogni atto di scelta o di
rifiuto, e scegliamo ogni bene in base al sentimento
del piacere e del dolore.
E' bene primario e naturale per noi, per questo
non scegliamo ogni piacere. Talvolta conviene tra-
lasciarne alcuni da cui può venirci più male che
bene, e giudicare alcune sofferenze preferibili ai
piaceri stessi se un piacere più grande possiamo
provare dopo averle sopportate a lungo.
Ogni piacere dunque è bene per sua intima natura, ma noi non li scegliamo tutti.
Allo stesso modo ogni dolore è male, ma non
tutti sono sempre da fuggire.
Bisogna giudicare gli
uni e gli altri in base alla considerazione degli utili
e dei danni.
Certe volte sperimentiamo che il bene si rivela
per noi un male, invece il male un bene.
Consideriamo inoltre una gran cosa l'indipendenza dai bisogni non perché sempre ci si debba
accontentare del poco, ma per godere anche di
questo poco se ci capita di non avere molto, convinti come siamo che l'abbondanza si gode con più
dolcezza se meno da essa dipendiamo.
In fondo ciò che veramente serve non è difficile
a trovarsi, l'inutile è difficile.
I sapori semplici danno lo stesso piacere dei
più raffinati, l'acqua e un pezzo di pane fanno il
piacere più pieno a chi ne manca.
Saper vivere di poco non solo porta salute e ci
fa privi d'apprensione verso i bisogni della vita ma
anche, quando ad intervalli ci capita di menare
un'esistenza ricca, ci fa apprezzare meglio questa
condizione e indifferenti verso gli scherzi della sorte.
Quando dunque diciamo che il bene è il piacere, non intendiamo il semplice piacere dei goderecci, come credono coloro che ignorano il nostro pensiero, o lo avversano, o lo interpretano male, ma
quanto aiuta il corpo a non soffrire e l'animo a essere sereno.
Perché non sono di per se stessi i banchetti, le
feste, il godersi fanciulli e donne, i buoni pesci e
tutto quanto può offrire una ricca tavola che fanno
la dolcezza della vita felice, ma il lucido esame delle cause di ogni scelta o rifiuto, al fine di respingere i falsi condizionamenti che sono per l'animo causa di immensa sofferenza.
Di tutto questo, principio e bene supremo è
l'intelligenza delle cose, perciò tale genere di intelligenza è anche più apprezzabile della stessa filosofia, è madre di tutte le altre virtù.
Essa ci aiuta a comprendere che non si dà vita
felice senza che sia intelligente, bella e giusta, né
vita intelligente, bella e giusta priva di felicità, perché le virtù sono connaturate alla felicità e da questa inseparabili.
Chi suscita più ammirazione di colui che ha
un'opinione corretta e reverente riguardo agli dei,
nessun timore della morte, chiara coscienza del
senso della natura, che tutti i beni che realmente
servono sono facilmente procacciabili, che i mali se
affliggono duramente affliggono per poco, altrimenti se lo fanno a lungo vuol dire che si possono
sopportare ?
Questo genere d'uomo sa anche che è vana opinione credere il fato padrone di tutto, come fanno
alcuni, perché le cose accadono o per necessità, o
per arbitrio della fortuna, o per arbitrio nostro.
La necessità è irresponsabile, la fortuna instabile, invece il nostro arbitrio è libero, per questo
può meritarsi biasimo o lode.
Piuttosto che essere schiavi del destino dei fisici, era meglio allora credere ai racconti degli dei,
che almeno offrono la speranza di placarli con le
preghiere, invece dell'atroce, inflessibile necessità.
La fortuna per il saggio non è una divinità
come per la massa la divinità non fa nulla a caso e neppure qualcosa priva di consistenza. Non crede
che essa dia agli uomini alcun bene o male determinante per la vita felice, ma sa che può offrire
l'avvio a grandi beni o mali.
Però è meglio essere senza fortuna ma saggi
che fortunati e stolti, e nella pratica è preferibile
che un bel progetto non vada in porto piuttosto che
abbia successo un progetto dissennato.
Medita giorno e notte tutte queste cose e altre
congeneri, con te stesso e con chi ti è simile, e mai
sarai preda dell'ansia.
Vivrai invece come un dio fra gli uomini.
Non sembra più nemmeno mortale l'uomo che
vive fra beni immortali.
Gentilmente una ragazza mi ha inviato il link di un suo video su YouTube:
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